Tilde Poli

Dal 29 aprile al 16 maggio 2004
Tilde Poli
Antologica (1948-2004)
arte contemporanea, personale

vernissage: 29 aprile 2004, ore 18.00
catalogo: in galleria, testo di Sandra Nava.
orario: martedì a venerdì dalle 17 alle 19,30 o per appuntamento

IL PORTALE DEL POSSIBILE L’ARTE DI TILDE POLI

Sandra Nava

Una personale di Tilde Poli a Milano, dopo una lunga assenza, è evento da porsi tra gli assoluti in un panorama istituzionale stanco che pare aver perso il gusto della sfida, della contesa tra generi che non siano del tutto in linea con l’agevolezza schematica della comunicazione attuale.
Il ritorno della Poli oggi nella città della sua formazione e affermazione giovanile prima, e cuore del dibattito artistico della ricostruzione post-bellica poi, cui in prima persona partecipò dagli esordi, è in questo prezioso distillato di opere proposto, l’itinerario di un’ avventura mentale a tutt’oggi non compiutamente svelata.
Un attenuto collezionismo e la critica ne hanno subito adeguatamente accompagnato in modo cospicuo e non occasionale, in pagine di acuta analisi storica, il percorso creativo che esordì nel ’42 in termini di particolare originalità, quando diciottenne Tilde Poli figurò tra i partecipanti della IV edizione del Premio Bergamo con un “Paesaggio” di raffinata abilità compositiva. Echi e rimandi dalla classica impostazione novecentista ma già allertati dalle ricerche e tensioni coeve offerte allora in silenziosa avventura alle più giovani generazioni: da quegli esordi neo-naturalistici tra gestualità espressionistiche oltre che materiche, di cui restano purtroppo poche tracce, agli aristocratici tratti neo-cubisti dell’ “Autoritratto” del ’48 che idealmente apre la rassegna.
L’esemplare sensibilità scenico-cromatica del dipinto e quel particolare “ragionar” di spazio nella gestione di una corporeità che è tutta nell’identificazione della forma, affiancheranno l’intero cammino di Tilde Poli in pagine ritrattistiche di particolare valore pittorico-introspettivo, sulle quali sarebbe oggi più che opportuno sollecitare un’attenta riflessione critica. Emerge nettamente un dato da questo atteso nuovo incontro antologico milanese, a confermare ancora una volta inesorabilmente quanto poco possano a volte coincidere parole e teorizzazioni con la complessità creativa di un’ideazione che riuscendo a garantirsi viva per tutto l’arco di questi decenni, arriva qui tra cangianti mutazioni e libertà d’azione, nell’architettura perfetta e incorruttibile del proprio racconto.
Ed è altrettanto fondamentale precisare subito che in quel grande crogiolo ideologico che caratterizzò il periodo post-bellico sino a tutti gli anni ’60 ed oltre, il linguaggio di Tilde Poli, benché attento e coinvolto nelle nuove sfide e divaricazioni teoriche, si muoverà sempre seguendo proprie imprescindibili linee di ricerca, lontano da schematizzazioni precostituite, antitetiche del resto alla sua natura, così da risultare nel tempo, come è qui evidente, autonomo rispetto ai vari assunti sperimentali via via accostati.
I contatti, le frequentazioni culturalmente intense di quegli anni così facendo di rinascita anche sociale, in frequenza da personalità destinate a mutare radicalmente gli ambienti d’avanguardia non solo milanese, concorreranno certamente ad aprire alla Poli le vie delle nuove sperimentazioni informali dei primi anni ’60, connotate tuttavia da una personale misura e visione estetica anche qui intesa come “luogo” di intima scoperta, sperimentazione rinnovabile tra sé e il possibile.
Su ogni passaggio una totale padronanza della materia, gestita in totalità soffuse, morbidamente chiaroscurali per qualità e vocazione propria, un sentire tra tensione e necessità di relazione di rara specificità.
Coerenza e lucida coscienza: un progetto già riscontrabile nel proseguo dalle vivace e qualifica attività espositiva a definire la piena affermazione in quegli anni fondamentali; strumento parimenti di una visione dell’arte emancipata da ogni speculazione, mai postulato da alcunché se non di quei valori da perseguire ed “e-mozionalmente” indicare, manifesto unico dell’opera d’arte di Tilde Poli.
In anni in cui la riflessione spesso ideologica sulle ragioni artistiche nella contemporaneità poneva stringatamente a confronto il rigorismo degli enunciati concettuali con le imprescindibili ragioni della poetica pittorica, la Poli ha coerentemente perseguito un tracciato liberamente indipendente, non richiudendosi mai in mentalistiche riflessioni autoreferenziali, così diffuse ai tempi, e tuttavia ponendosi con naturale autorevolezza attiva e protagonista in quel contesto. Ciò le consentì passaggi e variazioni apparentemente diversificate in intense stagioni sperimentali che, anche sulla pagina di una parentesi lavorativa in campo scenografico, daranno origine nella seconda metà degli anni ’60 ad un particolare periodo astratto-geometrico di metafisica atmosfera, ricco di radici e rimandi a mio parere non compiutamente elaborate criticamente e del quale permarrà sotterranea risonanza negli attuali esiti del lavoro. D’altronde da queste pagine di ricerca e di vita e da protratte lontananze dalla scena pubblica, tra il ’68 e il ’75, prenderanno consistenza approdi di raffinatissima astrazione che contribuiranno a consultare il nome di Tilde Poli tra i conclamati della ricerca astratta nazionale. Si innesta in quel particolare arco di tempo uno dei perni centrali su cui si basa la sua opera complessiva: un ricuperato senso della spazio quale zona immobile ma non neutrale di un’inespressa narrazione che l’artista sente, sa di dover restituire. Spazio-zona di risonanze e assenze, alveo capiente di tutte le forme su cui intervenire con il piglio autorevole del gesto che segna, indica, traccia, nella lievità luminosa della materia, in una sorta di automatismo semplice ed esemplare a stringere il passato al presente, la memoria alla presenza. Saranno pagine di straordinaria raffinatezza tecnico-compositiva che per tutti gli anni ’70 impegneranno l’artista in una complessa ricerca tra spazio-materia-dimensionalità, sul fragile crinale tra il convenzionalmente codificato e l’altrove: si aprono da qui di nuovo scenari, inizieranno, negli improvvisi rilievi sulla superficie dipinta del lavoro, nell’incessante inseguirsi di linee e grafie sinuosamente rincorrentisi in una luce-colore, sostanza e identità di quello spazio, quell’continuo rapporto, non privo di ambiguità con la realtà e la sua fruizione per coinvolgere, catturare, direttamente a lui rivolgendosi, l’osservatore, fine ultimo dell’operare dell’artista. Ma contestualmente da questi assunti si desume che sarà sempre più arduo procedere per definizioni teoriche affrontando i mutevoli tratti della narrazione della Poli, dove razionalità ed espansione emozionale convivono nel difficile equilibrio di un’unicità impossibile e limpida al tempo. Se l’ossimoro è l’accostamento virtuoso di sensi opposti che tendono logicamente ad elidersi, il mondo scenico di Tilde Poli si regge tutto su enigmatiche antitesi, non solo su un’innegabile icasticità, purezza, rigore.
Affrontando la ricca produzione degli anni ’80, in cui sempre più evidente si manifesta una manualità sapiente nell’abile gioco degli spessori e delle prospettive, nella necessità più urgente di dar campo e rilievo alle possibili e irrealizzate apparizioni di quell’universo di silenzi e metaforiche dimensionalità che l’artista incessantemente ricrea, la resa si concretizza in tavole-bassorlievi a più tecniche, suggellate in un nitore che, testimoniano interesse e frequentazioni per le scienze più avanzate, consegna codici da decifrare in affascinanti parabole.
Ripenso a Klee quando scrisse dalla necessità di “dissuggellare gli occhi sull’invisibile”, esercizio costantemente praticato e suggerito nell’intera opera della Poli, cercando di inseguire, su quelle tavole, i misteriosi tenacissimi fili delle infinite articolazioni che sembrano fluttuare nell’inafferrabile spazio di quelle porzioni condensate di tempo in cui l’artista si scontra, sperimenta e trasforma il presente per assumere al culmine del racconto anche l’arbitrarietà di una rivelazione. In una geometria mai orgogliosamente chiusa, ma continuamente contraddetta, in cui la luce converge con il colore dell’atmosfera, ecco delinearsi i confini di un mondo sconosciuto e sospeso, privo di certezze, dove agiscono, in dialoghi silenziosi, linee, strutture e forme a costituire gli elementi protagonisti dell’opera. E ripetutamente è proprio l’arco, figura archetipica della grammatica della Poli , a farsi portare di sconosciute dimensionalità.
Procederà incessantemente, negli anni ’90 sino ad oggi, la dialettica dell’artista, fitta e serrata in un innesto sempre più materico di strumenti e frammenti di genere, ruoli e identità in stretta connessione con l’inevitabile sedimento che la minacciosa inquietudine attuale evidenza in segni certi, anche durante emblematici prima che riconoscibili.
Il confronto è ancor più serrato tra spinte simboliche e i termini elusi della scritta figurale, in un processo in cui è impossibile separare l’intuizione creativa dell’artista dall’abilità dell’esperienza dell’artigiano, dove in improvvise aperture della superficie, arcani passaggi verso interne consistenze ognuno è chiamato ad entrare, distratto passante o fruitore protagonista. Ribaltando ancora una volta tutti i principi d’appartenenza e definizione, al di là dei canoni stessi dell’astrattismo e delle usuali cognizioni cromatiche, Tilde Poli, quotidianamente rinnovando un dialogo incessante con l’oltre, propone gli esiti della propria ricerca non come passivo oggetto da storicizzare, fatto di cui si è sempre totalmente disinteressata, ma come strumento possibile per indicare, suggerendole, modalità altre di rapportarsi con l’ineludibilità del destino: a ben guardare forse un pressante invito a non costringersi in precostituiti punti di vista, dando spazio all’illusione e creativamente cercando, anche per una sola volta nella vita, una soluzione diversa nelle griglie dei saperi, che spesso esiste assopita nei grovigli del quotidiano grigiore.
Questo esercizio riconoscibile e inimitabile unicum nell’intera vicenda artistica di Tilde Poli è esso stesso utile e lucida strategia poetica in grado di raggiungere immagini vitalmente e indelebilemente impresse nel tempo, e del suo proprio tempo.
Aprile 2004

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