Marcello Diotallevi

Dal 21 ottobre al 12 novembre 2004
Marcello Diotallevi
Fiabe al vento e altri assaggi
arte contemporanea, personale

vernissage: 21 ottobre 2004, ore 18,00
catalogo: con testo di MARTINA CORGNATI
orario: martedì a venerdì dalle 17 alle 19,30 o per appuntamento

Nei diversi ambienti in cui Marcello Diotallevi vive (casa – studio – auto) ci sono molti orologi, annidati fra una variopinta miriade di oggetti singolari, oggetti imprevisti, oggetti ordinati, oggetti stratificati, oggetti scontrosi, oggetti alluvionati e ricomposti nella forma instabile che il padrone di casa ha loro imposto.
Di questi orologi, però, ciascuno segna un’ora diversa, un’ora che per lo più, non ha nulla e che vedere con l’ora esatta, o presunta tale in base alle vigenti convenzioni spazio temporali.
Forse all’artista piace così, gli piace il ritmo e l’aspetto delle lancette sui differenti quadrati, il gioco geometrico appena accennato e probabilmente casuale, determinato dall’istante in cui ogni singolo meccanico ha cessato di funzionare dopo aver esaurito la sua carica, la sua riserva di energia.
D’altra parte Marcello Diotallevi non sa che farsene degli orologi, non ha bisogno di quelle sentinelle che sorvegliano la nostra esistenza e la nostra puntualità e ci richiamano di continuo ad ogni minima defezione, provvisori custodi di quell’estrazione sfuggente chiamata tempo. Infatti l’artista ha avuto il coraggio di imprimerne al suo di tempo un andante molto personale, molto più lento e “moderato” (per ricorrere ad un’espressione musicale) di quanto non sembri imporre l’efficientissimo obbligatorio della nostra epoca. D’altra parte, ricordarlo non è inutile, a tutt’oggi non esiste né probabilmente mai esisterà una teoria matematica che dimostri la coincidenza dei tempi esistenziali, dopo che Einstein ha dimostrato invece quanto relativo sia al tempo, e come cambi drammaticamente in rapporto alle condizioni del soggetto.
Moderato quindi, che però non significa grave o inerte: anzi, respingendolo l’affanno di uno stile di vita molto contemporaneo, Diotallevi ne evita anche tutta la dispersione, trovando così molto più tempo per concentrarsi con metodo (e senza fretta) sulle cose serie, cioè sull’espressione della propria melanconicità, qualità rara ma profondamente poetica e profondamente italiana, che ritroviamo infatti in diversi, autorevoli, precedenti portatori sani come Ariosto e Svevo, Belli e Fellini.
Artista melanconico, Marcello Diotallevi da quasi trent’anni a questa parte non perde occasione di dare prova della propria lucida intelligenza, della propria sensibilità ai valori epidermici dell’esistenza (intendo dire valori tattili, sensuali, sensoriali, estetici), della propria maestria tecnica e della propria disincantata distanza dalla stragrande maggioranza delle cose per cui il resto del mondo fa a pugni tutti i giorni. Il computer, per esempio, la comunicazione digitale con tutti i suoi annessi e connessi, a cominciare dal cellulare: l’artista dichiara candidamente che questa parola gli ricorda innanzitutto i furgoni della polizia destinati a ladri e prostitute, aggiungendo anche di sentirsi più analogico che mai, fermamente intenzionato, mentre tutti sfoggiano il loro ultimo palmare, a continuare a fare uso della lettera 24. Uno strumento, quest’ultimo, che ha assuto ormai una consistenza preziosa, da oggetto d’antiquariato, della qual cosa Marcello Diotallevi si compiace ancora di più, orgoglioso com’è della sua “tecnica”, dell’evidente manualità che i suoi lavori trasudano, pur nella loro sostanziale concettualità.
Non c’è anima senza corpo, si potrebbe dire, non c’è arte visiva affondo nella materia, nel colore, nella consistenza della carta, nel rituale della scrittura.
Marcello Diotallevi scrive moltissimo, ma nelle migliaia di pagine dei suoi testi e progetti, poemi, lettere e altro, da leggere non c’è nemmeno una parola. I suoi scritti sono fatti di fonemi, caratteri, unità base della scrittura, talvolta distribuite elegantemente nello spazio dato (dire foglio è riduttivo: qualche volta si tratta di aquiloni, di oggetti o invenzioni estemporanee), talvolta affastellate a macchia fino a saturarlo tutto.
Insomma, non c’è niente da capire, almeno in base alle nostre abitudini di ordinaria lettura, perché le lettere sono state affrancate qui dalla schiavitù della parola, dall’obbedienza del significato; e viaggiano così, libere e spensierate, in giro per la pagina. Quindi, per accompagnarle fino in fondo al loro percorso e ritrovare l’artista, non ci resta che trasformarci in detectives e trattare il lavoro sotto un profilo indiziario: esattamente come hanno dovuto fare tante volte i postini di fronte alle “lettere rispedite al mittente” che Marcello Diotallevi ha prodotto negli anni, forse la sua operazione mail artistica più giustamente famosa e celebrata. I loro tentativi di sottrarsi il disguido prodotto ad arte e dimostrarsi diligente fino in fondo, sono testimoniati dalla loro osservazioni spesso riportati in calce nelle lettere stesse: “illeggibile”, “indirizzo sul retro “vero””???” e via di questo passo. Osservazioni che inteneriscono, tutto sommato, perché si collocano esattamente in quel punto cruciale in cui la burocrazia incontra qualcosa di umano, come la perplessità, la sorpresa, forse il divertimento. Chissà, è lecito domandarsi, se si sono appunto divertiti o non piuttosto incazzati davanti alle variazioni di un perditempo (almeno estroso l’avranno chiamato…) che si diverte a portare la scompiglio di integerrimi postini e impiegati del settore pubblico.
Marcello Diotallevi, infatti, è fuori dagli schemi e costringe anche l’altro a stare al suo gioco; il suo oggetto, libro, opera o pensiero, non è mai a senso unico, ma trasmette sempre l’infinita precarietà di un sorriso e l’insostenibile dolcezza di una calzante battuta di spirito consumata poco a poco, per tutta la vita, a piccole dosi e senza alcun rimpianto.
D’altra parte la nostra è epoca povera di grandi gesti, grandi soluzioni e grandi idee. Non è tempo di epica, e quanto alla lirica, meglio fare attenzione alla circostanze, non solo esistenziali (che già quelle basterebbero abbondantemente…) ma anche storiche, magari ricordando Adorno e il suo monito sul malore e la praticabilità della poesia dopo Auschwitz. Ma per chi ne è capace, Marcello è fra questi, è sempre tempo di ironia, tempo di sopravvivenza in questa forma di linguaggio, tempo di riservate meditazioni, condivise a notte alta fra gli amici in uno di quei bar aperti fino a tardi. Luoghi caratteristici delle coste adriatiche, fra Emilia e Montefeltro, che ancora offrono un rifugio relativamente sicuro a quei sempre più rari maschi adulti che amano ritrovarsi fra di loro, senza prendere appuntamento e senza uno scopo preciso che non sia quello di accompagnare il flusso implacabile della vita con qualche momento di decenza paziente.
Così, fatta piazza pulita degli slanci lirici, di quella specie sempre troppo gratuita di sentimenti che già destava la perplessità di Renè Manritte quando scriveva: “la poesia non si fa con i sentimenti; si fa con le parole”; sospese, persino, all’attaccapanni le concettualizzazioni verbose e astratte, davanti a Marcello Diotallevi si è spalancato l’immenso e tutto sommato non troppo praticato campo della cose; per esempio gli aquiloni, una categoria di oggetti nei confronti dei quali l’artista nutre una vera passione, tanto da essersi affiliato da molto tempo nella società dei cultori, quasi una setta segreta; e questo nonostante che, in tutta la sua vita, Marcello di aquiloni non ne abbia mai fatto volare nemmeno uno. Quello che ha fatto invece è di reinterpretare l’aquilone come supporto colorato per poesie in leggibili, che virtualmente possano sparpagliarsi nel vento e raggiungere gli orizzonti più lontani e più favolosi o farneticanti.
C’è,in questo lavoro, una comprensibile leggerezza e piacere delle cose che ben si concilia con l’aspetto di queste fragili “fiabe” a-narrative, protese verso lo spazio ma ben castrate a priori nello loro velleità levitatorie. Si tratta quindi piuttosto di un’altra possibile forma della scrittura, un altro modo di dare al segno un corpo leggero, aggraziato, colorato; quasi una specie di albero di carta, lì apposta per mettere in relazione terra e cielo. Non per nulla, il lavoro di Marcello Diotallevi è tutto fondato sulla necessità di mettere-in-relazione; dalla mail art al libro d’artista, tutto è un disseminare lento, costante e discreto, di quella discrezione di cui solo i veri melanconici sono capaci. A camminare da quel primo, grande Marcel dell’arte contemporanea, con cui Diotallevi certo non condivide soltanto il nome di battesimo.
Cos’altro si può, si deve chiedere a un bravo poeta, a un mittente esemplare? Forse di dimostrare che la sua lingua, ancorché assolutamente analogica, sia davvero viva. E il lavoro di Diotallevi lo è (nonostante il suo rifiuto totale delle tecnologie digitali…), lo è pienamente nell’accumulazione di tracce, nel piacere della trasgressione anche rispetto a se stesso, nella calcolata lentezza del fare quotidiano confronto con rischi di forme nuove e diverse, in realtà predilette da sempre da mail artisti e dai loro numerosi compagni d’avventura:dai poeti visivi e concettuali, ai confezionatori di libri. Gente non a caccia, no, di novità banali, ma anche desiderosa di aderire al mondo nelle sue vibrazioni, nei suoi scivolamenti, nelle sue metamorfosi intrecciate ala mostre. Desiderosa, insomma, di esserci, con la lingua che sappia sempre dire, anche se non parla affatto; e di consentire all’intelligenza ancora un altro coup de des.

Martina Corgnati

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