Malek Pansera. Una regolare consumazione dei corpi

Dal 9 al 31 ottobre 2003
Malek Pansera
Una regolare consumazione dei corpi
arte contemporanea, installazione, personale

vernissage: 9 ottobre 2003. ore 19,30
catalogo: illustrato a cura di Giorgio Segato
orario: martedì a venerdì dalle 17 alle 19,30 o per appuntamento

Una regolare consultazione dei corpi

Seguo da molti anni ormai il lavoro, l’autentica passione di Melek Pansera, meravigliato ogni volta dalla sua straordinaria capacità di ‘strambare’ appena soffi i cali il vento di un ispirazione, di un progetto espressivo, narrativo. Chiude, e cambia contesto, tecnica, materie, spazi, misure. Perdendo di vista, a volte anche per pochi mesi, significa doverlo cercare, e ritrovarlo altrove con la mente, col cuore, con le mani. Dedica, infatti sempre grande attenzione ai materiali che usa, con invenzioni sempre sorprendenti che lo portano a utilizzare cose semplici come graffette, stuzzicadenti, scontrini, ritagli di carta, filo di ferro e filo spinato (come nella bella stele davanti alla biblioteca P.P. Pisolini a Cadoneghe), ma non per maniacale interesse per l’accumulo, per il replicarsi in assemblaggi o in sequenze dello stesso elemento od oggetto, come in Arman, ma implicando l’elemento della costruzione e strutturazione dell’opera, spesso mimetizzando col colore o nell’evento compositivo. Pansera non è tanto interessato a evidenziare l’oggetto utilizzato e al moltiplicarsi della percezione di esso nella serialità, quanto al suo modularsi costruttivo e ambiguo in forme che via perdono contatto con il dato originario per diventare altro nella visione, nella memoria, per la sensibilità esterna ed interna. Il suo rapporto con la forma, con la materia e con i processi operativi è sostanzialmente filtrato dalla memoria dei sensi e dalla volontà di provocare quanto più possibile una visione mestica capace di restituire corpo, contesto e continuità di racconto alle sensazioni. Per questo egli ricerca sempre una particolare fisicità, il più possibile doviziosa di elementi tattili, di riferimenti sinestetici, di richiami storici, di ‘vissuto’ e di slittamenti nell’immaginario, spingendosi, un tempo, anche fino al surreale, oggi restando più contenuto nel fantasioso.
E la ‘regolare consumazione del corpi ’ è a ben vedere proprio il vissuto, l’esperienza compiuta che riemerge, ridotta in tracce, lacerti, frammenti, lacerata, smarrita attraverso gli oggetti usati: qui (nel Totem) gli stampi, o ‘anime’ di fonderia, le lastre schermografiche, là la cedoline, gli scontrini, o buoni bibite e buoni pasto arrotolati come messaggi criptati, altrove e prima la carta triturata o tagliuzzata, la graffette, gli stuzzicadenti.
La ‘regolare consumazione dei corpi’ è quella prevedibile e prevista, programmata, preventiva, degli strumenti materiali, tecnici, tecnologici, è l’usura delle macchine, ma anche – ecco il senso delle lastre – dei corpi umani, il consumo dell’uomo, che è parte integrante dell’ingranaggio. Malek ha davvero la spirito del ‘recuperante’ e ha percorso in lungo e in largo le grandi sale vuote dell’ Officina Breda di Cadoneghe, i cortili interni, raccolto forme, piccoli documenti (buoni, certificati, casse), qualche registro; ma soprattutto si è lasciato compenetrare da quei vasti silenzi saturi di voci e di suoni, di risonanze e di riflessi visivi impacchettati, liberandoli e vivendo repentine allucinazioni, persistenti miraggi. Per verificare, dare sostanza e verità a quelle allucinazioni ha costruito un Totem della memoria e dalle presenza con le anime (gli stampi) e con le lastre schermografiche, le quali mostrano la consumazione interna dell’uomo, dei pomoli, luogo del respiro, del neuma, dell’anima. Per Malek la consumazione, la consunzione, la dismissione non devono corrispondere semplicemente a una perdita e ala morte, ma sollecitare una presa di coscienza e un conseguente aumento qualitativo e quantitativo della memoria; la perdita materiale deve corrispondere a, e nutrire, un’acquisizione di pensiero, di conoscenza, di verità.
Con i buoni pranzo e i buoni bibite, così come con gli scontrini di acquisto di pane e dolci ha fatto tanti rotolini quali messaggi da distribuire su superfici pittoriche come elementi di una singolare tessitura di colore e pensiero, superficie e piccoli volumi cilindri, che pongono in rilievo un ritmo corrispondente a un fluire di idee, di comunicazioni criptate, attraverso l’atmosfera cromatica che dichiara la condizione psicologica ed esistenziale.
Malek, giustamente, ritiene la scrittura fondamentale per la memoria, ma si rende anche conto che scrittura e parola hanno subito un’usura e una banalizzazione davvero micidiali con la televisione e la massificazione della comunicazione. Così, la scrittura e la parola, la poesia debbono per lui tornare nello scrigno del cuore, risonanza segreta ad intima, comunicazione empatica e non esporsi ai contagi e alle contaminazioni che confondono il senso e i sensi. Il Totem è l’accumulo all’origine, all’officina, alla presenza dell’uomo e al suo lavoro, dentro al quale si spia tramite le schermografie illimitate, rivelando così lo svuotamento interno, i polmoni intaccati, la difficoltà di respiro: Totem come mito (il lavoro) e come memoria (ancora il lavoro), come metafora dell’uomo (la sua energia, la sua malattia, la dismissione dal lavoro e del lavoro, dell’officina) e anche Totem come monumentale reliquiario, tabernacolo e ostensorio, ricostruzione della memoria del lavoro e del corpo, fatta con elementi recuperati sul posto, abbandonati nei cortili e nei cassetti degli uffici della fabbrica per sempre dimessa.
Il Totem si offre, dunque, come una sorta di celebrazione, come evento liberatorio di un alto stratificarsi di emozioni, di impressioni, di scoperte, di conoscenze, utilizzando per mesi (un paio d’anni in verità) i locali svuotati delle Officine Breda come atelier personale, e nello stesso spirito che gli suggerì lo scorso anno l’organizzazione della collettiva di installazioni e interventi d’artista dal titolo “Demolizioni”. Il Totem con le sue integrazioni ed articolazioni rappresenta, in sostanza, un a riflessione sul passato e sul modificarsi “apparente” della vita, del lavoro all’interno della “regolare” (prevista, programmata, preventivata) “consumazione dei corpi” che continua e si allarga aggravandosi con i grandi flussi migratori, le carrette del mare, la globalizzazione, gli investimenti selvaggi di pura speculazione nel terzo e quarto mondo.
La sensibilità operativa di Melek Pansera lo spinge a raccogliere ogni tipo di documento del rapporti tra mondo del lavoro e quotidianità. In questo senso i messaggini sui grandi pannelli colorati o il lettering poetico velato dalle cromie rappresentano e sollecitano una memoria del presente: sono scontrini di un quotidiano vivere senza accumuli di ricchezza, giorno per giorno, con piccole gioie (cibo, poesia) e piccole speranze (gioco, salute), molto lavoro.
Il contenuto dei cilindretti di carta è scontato, ma Melek li distribuisce sulla superficie pittorica come messaggi secretati, nodi e ritmi di racconto su zone di felice accensione cromatica, o di immersione sensitiva, o semplicemente di raccordo tra esperienza e desiderio, tra realtà e sogno.
Ancora una volta la superficie dei dipinti di Melek si completa e ha configurazione di tessitura con elementi fragilissimi, delicati, effimeri che ritmano la stabilità, continuità e profondità del campo cromatico, proiettando la percezione dell’osservatore nel “terrain vague” dell’ascolto, dell’attesa, della curiosità, della sospensione emotiva gravida di tante piccole aspettative, di contenute speranze. Alla trama del pigmento si coniuga lo strategico ordito dei messaggini nella tessitura elegante e davvero suggestiva di una geografia di desideri celati, lascia risuonare nel cavo del cuore, nel grembo della fantasia. Le modulazioni di superficie con materiali non convenzionali, cercati per ottenere textures ambigue, politematiche e metaforiche è una delle caratteristiche sostanziali della ricerca di Melek, che costantemente irrompe in campi di sensibilità diversa per estrapolare percezioni nuove, evocazioni, ricordi infantili e giovanili, depositi inesplorati di memoria, come per irrinunciabile esigenza di costante valutazione estetica dell’esperienza esistenziale: ora interviene su riferimenti letterali (Hemingway, Bohumil Hrabal, peter Handke) ora su condizioni di visualizzazione lontanante e, dunque interiorizzata di territori, di geografie con piccoli punti di riferimento segnalati dall’estremità appuntita e colorata in rosso di uno stuzzicadenti.
E di lì viene l’idea di utilizzare gli stecchini per creare una nuova texture, più tattile, più ambigua e, in certo senso (vista da vicino) minacciosa e respingente, vista da lontano invece morbida e accogliente, basandosi, come nelle precedenti geografie urbane, composte con abbassamenti di graffite, sulla qualità e su leggeri movimenti delle sottili punte, in certo modo – e riflettendo sulle sensibilità lontanante di Pansera – metafore dello sciamare delle parole, sempre più monotone, monocordi e sfuggenti nel significato, ridotte a un continuum percettivo di fondo, che in sostanza introduce un elemento di allarme senza però contenuti strutturali. La soluzione monocroma in bianco, o nero, o blu, o rosso e più recentemente gialla, consente sorprendenti sollecitazioni della percezione del campo e movimento e modulazioni di luminosità e di ombra, le quali magnificano l’ambiguità della superficie (morbida/pungente, vibratile/rigida, omogenea e monocroma o tutta inghiottita sui e tra i picchi degli stecchini). Malek prosegue così nella sua originale e costante ricerca su materie e superfici, inventandone l’utilizzo, non semplicemente in funzione di un’inedita visualizzazione e di un gradimento sensitivo, estetico, ma ben più come innesco di processi percettivi nuovi, di sinestesie dei sensi esterni ed interni, di slittamenti e proiezioni di carattere operativo, progettuale, concettuale.

Padova, settembre 2003
Giorgio Segato

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